Parigi val bene un Cognac (e pure un Grand Marnier)

La grandeur francese ha il suo perché.
Lo dico di ritorno da un press tour, che ha avuto inizio e fine nella capitale francese e che da lì ci ha portato 450 chilometri a sudovest, in Cognac.
Tra città e campagna, tra boulevard e vigne, tra palazzi e castelli, mi è stata narrata la storia della maison Grand Marnier, che distilla dal lontano 1827 e, dal 1880, produce in Cognac il celeberrimo liquore all’arancia.
Che non è un “semplice” liquore all’arancia, ma un matrimonio tra i Cognac più fini e la scorza verde di Citrus bigaradia, arancia amara così ricca di oli essenziali da essere prediletta anche da un’altra grande maison, Hermés, che ne ricava un raffinato parfum.
Naturellement, c’è dietro molto di più.
C’è una famiglia, quella dei Marnier Lapostolle, giunta alla sesta generazione.
C’è uno château, a Bourg Charente, dove siamo stati ospitati con charme, costruito nel Cinquecento e incastonato tra Grande e Petite Champagne, le due zone centrali del Cognac (per la cronaca, le altre sono Borderies, Fins Bois e Bons Bois).
Ci sono, ça va sans dire, le vigne: sono coltivate a Ugni Blanc (uva Trebbiano) e il vino che se ne ottiene è subito distillato, due volte, per ricavarne la più elegante delle eau-de-vie. Che può fregiarsi del nome Cognac solo se proviene da quelle uve, coltivate in quelle terre e lavorate nei tempi previsti (entro l’anno di produzione del vino): non per niente stiamo parlando di una Aoc, Appelation d’Origine Contrôlée, ovvero una Doc.
C’è poi una tradizione, anche artigianale, che si rinnova nelle diverse fasi della produzione non solo del liqueur, ma persino delle botti destinate a custodirlo: sono la forza dell’uomo, il vapore e il fuoco a plasmare, assemblare, curvare, saldare le doghe (ricavate da magnifici tronchi di quercia e stagionate all’aria) in recipienti robusti e “vivi” quanto solo qualcosa di naturale può essere.
Così, abbiamo l’equazione perfetta: un distillato Doc, un agrume pregiato (a proposito, le arance sono coltivate ad Haiti, in piantagioni di proprietà), un affinamento in botti di rovere.
Più quel je ne sais quoi di francese che conferisce un fascino tutto particolare a qualcosa che, forse, da noi (mai così bravi nel marketing di noi stessi quanto i cugini d’Oltralpe) sarebbe semplicemente un liquore.
Grand Marnier è oggi una compagnia che “sforna” 100.000 bottiglie al giorno e ne vende, in tutto il mondo, una ogni 2 secondi. E se il cuore è nel cuore del Cognac, la testa è nel centro di Parigi, nella sede imponente e un po’ vintage di Boulevard Haussmann, a due passi dalla Madeleine e dall’Opéra, per dire.
Se non è grandeur questa.

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I miei tubetti (cerca l’intruso)

Spremuti male, tutti storti, colorati: i tubetti mi piacciono un sacco. Intanto, perché racchiudono cose dalla consistenza morbida e pastosa, che già sono due bei concetti. Poi perché è bello forare il coperchietto con la punta nel tappo. E anche perché spremerli dà sempre una certa soddisfazione. Schiacciarli al centro quando sono nuovi e gonfi. Appiattirli con il manico del cucchiaio di legno quando sono a metà, per spingere quel che c’è dentro verso l’uscita. Strizzarli quando stanno finendo per cavarne fuori fino all’ultimo ricciolo.
Sicché, ve li presento, cominciando con quello della maionese.
Premessa: non amo la maionese, tollero appena quella fatta in casa. Però, in un paio di frangenti riesco ad apprezzarla, tipo con tonno, ceci e prezzemolo, o trasformata in una imitazione di allioli catalana o aïoli provenzale. Usi limitati, ecco perché non ne compro barattoli, ma solo un tubetto ogni tanto. Che, però, guadagna punti per via di quel suo forellino a stella, che fa quelle belle striscioline decorate.
Ci sono poi i tubetti a base pomodoro. Le mitiche Verdurine Mutti e burro risolvono una pasta in tre minuti e per me fanno parte di quella categoria di cibi vagamente proustiani, come la pastina in brodo (risoni for ever!) o la zuppa di pane e latte, che mi fanno tornare bambina.
Il Triplo Concentrato, sempre Mutti (no, non mi pagano!) è assolutamente fondamentale in tutti i sughi di pomodoro, per renderli cremosi e legati, sciolto in appena un filo d’acqua calda. E mentre sogno l’astratto siciliano, il concentrato artigianale asciugato al sole, spremo Triplo a nastro un po’ dappertutto: nella caponata e nella peperonata, nello spezzatino e per fare il ragù.
E poi la Balena: quant’è buona la pasta d’acciughe? A patto che sia solo fatta con acciughe e sale (certe c’han dentro l’olio di semi – bleah!). Sul pane e burro (ottimo rimedio antinausea in barca, specie se il pane è un po’ raffermo o usando crostini integrali tipo Krisprolls, come mi ha insegnato la mia mamma). Negli spaghetti aglio olio e peperoncino. Nella pasta al tonno. Nel fondo di cottura delle vongole. Buona, sapida, marina.
Fuori concorso, il mio tubetto svizzero: Cenovis. Come concetto è un po’ tipo l’estratto di carne Liebig, ma è a base di lievito di birra ed estratto di verdure, che detta così sembra una schifezza, ma dà un buon saporino alle scaloppine e alle verdure al burro (mi sto rendendo conto che questo post gronda letteralmente burro), e c’è pure la vitamina B1. Non chiedetemi perché l’ho comprato: semplicemente, nei supermercati fuori dall’Italia non so resistere a tutti quei tubetti variopinti e sconosciuti che chissà che c’è dentro.
Ora che ci penso, mi piacerebbe tantissimo andare a vedere una fabbrica di tubetti. Quasi quasi mando il link del post ai signori Mutti.

(Ps: scoperto l’intruso?)

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C’è salsa e soia

Il Maestro sushi Hayamizu-san

Ribadisco: come ho scritto nel mio ultimo post, il mio rapporto con l’etnico è un po’ cialtrone. Però, quando mi raccontano qualcosa, ascolto attentamente e cerco di trarne una qualche nozione, non fosse altro che per sfoggiarla in società.
Come quella volta che il Maestro sushi Hayamizu-san spiegò la differenza nell’utilizzo della salsa di soia in Cina e in Giappone. Ora, le parole esatte non le ricordo (il Maestro parlava in giapponese, l’interprete olandese traduceva in un inglese duro
e aspro), ma il senso potrei riassumerlo così: in Cina la salsa di soia va sul cibo,
in Giappone il cibo va nella salsa di soia.
Nel primo caso, si irrora sul riso, sulle verdure, su ravioli e involtini riccamente farciti, nei wok in cottura colmi di ingredienti. Nel secondo caso, vi si intingono i bocconi
di sushi e sashimi, semplicemente composti da riso e pesce crudo.
A Pechino è una tra gli interpreti di quell’ottima cucina, a Tokio la coprotagonista.

Beh, sì, ho semplificato. Ma questa spiegazione, insieme ad altre perle di saggezza del Maestro Hayamizu-san (tipo: le donne non possono fare il sushi perché le loro mani sono troppo piccole per poter modellare le polpettine di riso del Nigiri) mi è sempre rimasta impressa. E ora ve la sfoggio.
Con tanto di consiglio per gli acquisti. Quando andate a comprare la salsa di soia, guardate l’etichetta e controllate che compaiano quattro ingredienti e solo quattro: acqua, semi di soia, frumento e sale. Già che ci siete, vedete che da qualche parte sia scritto che state comprando una salsa fermentata naturalmente.
È la fermentazione naturale a dare dolcezza, colore e corpo alla salsa. Chi non ha la pazienza di aspettare i tempi di questo processo, aggiunge caramello, conservanti, aromi, coloranti e additivi vari. Ma al palato si sente che c’è qualcosa non va. Perché la salsa “cheap” ha, fatalmente, un sapore troppo dolce e insieme un retrogusto amaro, è spesso eccessivamente sapida, e assaggiata nature è mica tanto buona.

Tutto il contrario della salsa “naturally brewed”. Che io personalmente adoro. La uso per le mie ricette esotiche inventate lì per lì. Nelle insalate e soprattutto sui pomodori è deliziosa. Sulla carne e sul pesce idem. Io ci faccio persino una pasta: spaghetti (se piacciono, integrali, per ricordare i Soba giapponesi) cotti al dente, scolati un po’ umidi e versati in una terrina dove stanno marinando da un po’ datterini a spicchietti, bocconcini di mozzarella a tocchetti, olio extravergine d’oliva, basilico spezzettato, una macinata di pepe se vi va e – neanche a dirlo – un generoso giro di salsa di soia.
Un po’ fusion de’ noartri, forse, ma l’abbinamento io lo trovo azzeccato. Per altro, il classico boccettino dal tappo rosso e doppio beccuccio l’ho visto, nella vita, anche sui banconi e nelle dispense di ristoranti italianissimi, persino stellati, e qualcosa ci avranno pur fatto i nostri blasonati chef. Del resto, anche la cucina si fa (o dovrebbe farsi) global. Oppure no?

Mentre ci pensate, vi lascio un’altra perla di saggezza di Hayamizu-san che, seppure non c’entri più con l’argomento soia, mi ha semplificato la vita e, quindi, la diffondo volentieri: i giapponesi, il sushi lo mangiano con le mani.

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Il pollo giapponese

Ora, io sono sicura che quando mi cimento nelle cucine “etniche” (virgolette d’obbligo, data la natura un po’ cialtrona del mio “etnico”) pasticcio esattamente come farebbe una thailandese con spaghetti e pelati, o un’americana con riso e zafferano.
Insomma, la verità è che vado un po’ a braccio, e quindi non so se il mio pollo giapponese, dal suggestivo nome Shichimi Togarashi, esiste davvero in natura. Ma esiste nella mia cucina, perché io lo faccio. Ecco come.
Partenza, le spezie Shichimi Togarashi: si comprano già miscelate (Cannamela, all’Esselunga) ma, amando il fai da te (e per un gusto facilmente più fresco), penso che si possano assemblare mescolando, suppergiù in parti uguali, semi di sesamo non tostati, peperoncino secco sbriciolato, scorza d’arancia grattugiata, pepe di Sichuan frantumato (o il più comune pepe nero, purché macinato molto grossolanamente, a mio avviso), semi di papavero e, per non farsi mancare nulla, alghe macinate.
Sembrerà strano ma tutto quello che ho elencato si trova nei supermercati un poco forniti, comprese le alghe: io proverei a usare un pizzico di nori (quelle del sushi), oppure di kombu o wakame e, poiché sono disidratate, penso che sbriciolarle sia semplice.

Bene, abbiamo le nostre spezie (nella foto). Adesso, occorre marinare il pollo (petto o coscia, senza ossi e senza pelle, a bocconcini): per mezzo chilo di carne, 4 cucchiai di sakè (mai bevuto ghiacciato? è una delizia!), 6 di salsa di soia (la più buona è la Kikkoman, un giorno racconterò perché) e uno di zucchero, mescolati in un pentolino al fuoco dolce finché lo zucchero è sciolto.
La marinata tiepida si versa sui bocconcini, spolverizzati con un cucchiaino colmo di spezie. Poi si mescola, si copre e ce ne si dimentica per un po’.

Quando sembrerà che il pollo abbia riposato a sufficienza (nessun affanno: può marinare da 15-20 minuti a 4-5 ore), ci sono due strade. La bustina delle spezie pronte suggerisce di fare spiedini (si chiamano Yakitori e sono molto à la page). Io invece preferisco spolverizzare su tutto un cucchiaino da tè colmo di Maizena, dare un’ultima rimescolata e saltare nel wok una decina di minuti (o anche meno, se i bocconcini sono piccini) finché la carne è rosolata e la salsetta addensata (grazie Maizena grazie).
Volendo, si può spolverizzare ancora un po’ di spezie, con cautela però: il mix è molto, molto, molto piccante.

E concludo: forse nessun giapponese che si rispetti ha mai cucinato né mangiato nulla di simile. Ma è buono ciò che piace. E il pollo giapponese piace.

 

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La necessità dell’albero

Avere un albero in città è un onore e un onere.
È un onore, perché mica tutti possono dire di avere un albero.
Ed è un onere, perché gli alberi, che pure ti regalano la loro ombra d’estate, e un poco di riparo d’inverno (sotto l’albero piove poco, e non nevica!), ti chiedono qualcosa in cambio. Di ascoltarli quando schricchiolano. Di sopportare i loro inquilini cinguettanti, che oltretutto abitano nidi senza servizi igienici.
Il mio albero mi inonda, secondo stagione, di aghi, pignette, rami e rametti, gocce di resina appiccicose. Un po’ come fa il gatto che lascia sulla soglia di casa uccellini morti di paura, code di lucertole o lucertole senza coda.
Io, come fosse il gatto, sorrido benevola, raccatto e butto nel secchio di soppiatto, che non abbia a offendersi perché getto via i suoi regali.
Ma poi, come sono orgogliosa di lui, quando fa da cielo agli amici in una sera di inizio autunno che sembra sia fine estate.
La necessità dell’albero è abbracciare il mondo che sta sotto le sue fronde. La mia necessità è stare lì sotto.
Gli amici se ne vanno via contenti. Io lì per lì penso sia stato per il cibo, il vino, la luce delle candele. Invece no. È stato per l’albero.
Giuro che non lo abbraccio, però. Al massimo, lo invito a cena. Il mio albero conviviale.

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Conviché?

Il mio vecchio Nuovo Zingarelli, chiuso in redazione nel dicembre del 1987, segnala Conviviàre come voce arcaica o desueta (due begli aggettivi moderni!) di Convivàre, altro termine demodé per “Far convito, banchettare”. Insomma, perché mai avrò deciso di chiamare questo mio blog con una parola che era già vecchia quasi 25 anni fa?
Perché a me piacciono le parole che non usano più.
Anche quel “banchettare”, a pensarci: forse sono rimasti solo i volantini delle trattorie fuori porta a proporre “banchetti per matrimoni e affini”. Ma vuoi mettere com’è evocativo? “Banchettare” fa venire in mente tavole imbandite e abbondanti libagioni.
Ma in “conviviare” c’è di più. C’è quel “con”, che suggerisce che non sei da solo, ma a me sembra che non siete neanche in due o in tre, ma in un po’.
C’è poi un richiamo, non fosse altro che per assonanza, alle “vivande”, altra parola meravigliosa che, dice ancora il Nuovo Zingarelli, significa “cibi preparati per il pasto”, ma deriva dal latino “vivanda”, ossia “cose necessarie a vivere”.
Tirando le somme, potrei dire che ho chiamato questo blog “Conviviare” perché sia un luogo in cui condividere con altri (piccole) cose necessarie a vivere. Magari, di tanto in tanto, anche con qualche abbondante libagione. E il cerchio è chiuso.

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Ecco, sono qui

Parafrasando la quarta di copertina del mio ultimo e primo libro, Come sedurlo a tavola (Morellini Editore), sono qui, poco più che quarantenne, giornalista di cucina e “provetta” cuoca dilettante. Secondo un calcolo approssimativo, negli ultimi tot anni ho scritto qualche migliaio di ricette e ne ho realizzate molte altre ancora. Vivo, lavoro e cucino a Milano. E questo è il mio primo post.

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