Ribadisco: come ho scritto nel mio ultimo post, il mio rapporto con l’etnico è un po’ cialtrone. Però, quando mi raccontano qualcosa, ascolto attentamente e cerco di trarne una qualche nozione, non fosse altro che per sfoggiarla in società.
Come quella volta che il Maestro sushi Hayamizu-san spiegò la differenza nell’utilizzo della salsa di soia in Cina e in Giappone. Ora, le parole esatte non le ricordo (il Maestro parlava in giapponese, l’interprete olandese traduceva in un inglese duro
e aspro), ma il senso potrei riassumerlo così: in Cina la salsa di soia va sul cibo,
in Giappone il cibo va nella salsa di soia.
Nel primo caso, si irrora sul riso, sulle verdure, su ravioli e involtini riccamente farciti, nei wok in cottura colmi di ingredienti. Nel secondo caso, vi si intingono i bocconi
di sushi e sashimi, semplicemente composti da riso e pesce crudo.
A Pechino è una tra gli interpreti di quell’ottima cucina, a Tokio la coprotagonista.
Beh, sì, ho semplificato. Ma questa spiegazione, insieme ad altre perle di saggezza del Maestro Hayamizu-san (tipo: le donne non possono fare il sushi perché le loro mani sono troppo piccole per poter modellare le polpettine di riso del Nigiri) mi è sempre rimasta impressa. E ora ve la sfoggio.
Con tanto di consiglio per gli acquisti. Quando andate a comprare la salsa di soia, guardate l’etichetta e controllate che compaiano quattro ingredienti e solo quattro: acqua, semi di soia, frumento e sale. Già che ci siete, vedete che da qualche parte sia scritto che state comprando una salsa fermentata naturalmente.
È la fermentazione naturale a dare dolcezza, colore e corpo alla salsa. Chi non ha la pazienza di aspettare i tempi di questo processo, aggiunge caramello, conservanti, aromi, coloranti e additivi vari. Ma al palato si sente che c’è qualcosa non va. Perché la salsa “cheap” ha, fatalmente, un sapore troppo dolce e insieme un retrogusto amaro, è spesso eccessivamente sapida, e assaggiata nature è mica tanto buona.
Tutto il contrario della salsa “naturally brewed”. Che io personalmente adoro. La uso per le mie ricette esotiche inventate lì per lì. Nelle insalate e soprattutto sui pomodori è deliziosa. Sulla carne e sul pesce idem. Io ci faccio persino una pasta: spaghetti (se piacciono, integrali, per ricordare i Soba giapponesi) cotti al dente, scolati un po’ umidi e versati in una terrina dove stanno marinando da un po’ datterini a spicchietti, bocconcini di mozzarella a tocchetti, olio extravergine d’oliva, basilico spezzettato, una macinata di pepe se vi va e – neanche a dirlo – un generoso giro di salsa di soia.
Un po’ fusion de’ noartri, forse, ma l’abbinamento io lo trovo azzeccato. Per altro, il classico boccettino dal tappo rosso e doppio beccuccio l’ho visto, nella vita, anche sui banconi e nelle dispense di ristoranti italianissimi, persino stellati, e qualcosa ci avranno pur fatto i nostri blasonati chef. Del resto, anche la cucina si fa (o dovrebbe farsi) global. Oppure no?
Mentre ci pensate, vi lascio un’altra perla di saggezza di Hayamizu-san che, seppure non c’entri più con l’argomento soia, mi ha semplificato la vita e, quindi, la diffondo volentieri: i giapponesi, il sushi lo mangiano con le mani.
Questo è un post molto confortante… Compro la Kikkoman a mezzi litri per volta, in Svizzera (in Italia non l’ho mai trovata, in questa confezione): non ha il tappo rosso a doppio beccuccio, ma costa meno. E poi è il contenuto che conta. Che adesso vale di più, adesso che mi hai spiegato l’istinto che me la faceva preferire…
Devo dire che la salsa di soia è un po’ una valvola di sicurezza per ipertesi come me: ci sono cose che proprio non riesco a ingoiare del tutto insipide (le zuppe di verdura, per esempio) e quindi la uso per sostituire il sale. Magari sbaglio, ma mi pare più innocua.